LA FOTOGRAFIA COME MEZZO E NON COME FINE
LA FOTOGRAFIA COME MEZZO E NON COME FINE
Leggendo appunti sulla fotografia naturalistica mi ha colpito questa frase. Queste parole, lette in un vecchio articolo non firmato mi hanno turbato, anche spiazzato, ma non per mancanza di valore intrinseco che l’immagine naturalistica ha per sua natura, piuttosto perché ha centrato un mio pensiero latente ancora nascosto, perché questa frase la condivido a mia insaputa. “La fotografia come mezzo e non come fine”.
Una fotografia vissuta non come fotografia documentativa o come una immagine che racchiuda una estetica oggettiva comune, ma piuttosto eccitata da uno stimolo emotivo indipendente dalla bellezza, aggiungerei voluttuosa nel vero senso dell’etimologia della parola.
Cos’è che mi spinge allora fotografare la natura? i boschi ad esempio?
Passare intere giornate fuori dai sentieri comuni, arrampicarsi dove caprioli faticano, sdraiarsi come tassi in un cespuglio o appiccicarsi a una roccia come una lucertola solo perché da quella posizione l’occhio è gratificato, oltretutto con due o tre kili di attrezzatura addosso e spesso un cavalletto.
La fotografia naturalistica è fortemente vissuta con passione e amore da parte mia al punto che banalizzo immagini dotate di forte impatto visivo a favore di una ricerca profonda che si avvicina più al sogno piuttosto che a una verità ormai falsata. E’ per un bisogno interiore di far parte dell’ambiente naturale, qualcosa che si avvicina all’universale forza che essa trasmette, cui io cerco di farne parte. L’osservazione quasi maniacale di essa, della natura, del particolare o del soggetto finalizzato allo scatto, mi porta quindi inconsapevolmente ad una visione nuova, un occhio diverso che apre la mente e la conoscenza di quei luoghi. Nella mia mente esiste un sipario che a un certo momento scende, cancella un mondo superficiale, poi si riapre nell’intimità di quei luoghi, e come un animale selvatico m’immergo in questo ambiente.
Disagi e avversità dovute al clima, mani congelate nell’attesa della luce migliore che riveli lo scenario freddo dell’inverno, lunghe camminate su per delle rive scoscese scoprendo poi che la luce è cambiata all’ultimo momento, cercare con avidità qualcosa da infilare nell’obbiettivo solo per una sete curiosa guidata da una paranoia o per esorcizzare la paura di non farne parte.
Non è necessario che conosca la storia botanica di un bosco per fotografarlo con passione emotiva, ma se lo amo al punto da fotografarlo vorrei poi conoscerlo meglio e questo a mio avviso è un bene. L’approccio è quindi rovesciato e come tale la forza dell’immagine ottenuta sarà migliore.
Il risultato che ne consegue non sarà allora una cartolina ma diventa un’opera fotografica soggettiva, voluta, cercata ad ogni costo, ma anche un pretesto, ed ecco allora che diventa un mezzo e non un fine per viverla e farne parte.
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